Ci sono molti modi di raccontare un territorio, uno di questi può essere farlo guardandolo attraverso gli occhi di un grande scrittore: Piero Chiara.
Autore unico, irriverente e autentico, ha saputo nei suoi romanzi raccontare scorci di Verbano come nessun altro.
Il popolare scrittore, nato a Luino nel 1913 e morto a Varese nel 1986, nella sua opera letteraria ha dato spazio più volte al legame con Cannero e in particolare con i Castelli, luogo da lui particolarmente amato, che insieme al lago, le case e le ville che vi si affacciano fanno da cornice alle narrazioni.
Non mancano anche belle riflessioni sul tessuto sociale del suo tempo, il rapporto con la vicina frontiera svizzera, i riferimenti gastronomici, ma anche e soprattutto la Corte di personaggi che li popolano, che Piero Chiara descrive nelle loro storie di gente di provincia tra semplici momenti di paese, grandi slanci, segrete passioni e peccati che dalla sua penna sapiente appaiono sfumati come acquerelli sulla tavola di un pittore.
Si dice che i quadri di Chagall nascano dal colore lasciato sui pennelli appoggiati sulla tela: allo stesso modo Cannero i Castelli, il Verbano e lo stesso Alto Lago Maggiore emergono dai romanzi di Piero Chiara come un grande intricato e segreto affresco dai colori accesi dei tramonti sul lago che vi invitiamo a scoprire in un testo inedito, ritrovato in un libro sapientemente conservato in una delle case del quartiere del porto e proposto una lettura estiva organizzata dalla Proloco.
“Informato della sua esistenza, ma non potendolo distinguere a quattro chilometri di distanza e contro lo sfondo della riva opposta, andai a riconoscerlo solo all’età di quindici anni, con la barca a remi «Iride», noleggiata dal barcaiolo Lanella.
L’Arcipelago consisteva in tre masse emergenti, delle quali la maggiore era interamente occupata da un grande castello innalzato sopra una base irta di scogli verso la sponda lombarda, ma ingentilita da una piccola spiaggia verso quella piemontese.
Mi aggirai con la barca tra un castello e l’altro, poi intorno alle alte muraglie. Qualche nero uccello abitava le cimase, ma nessun vestigio umano era possibile scorgere, oltre un portoncino chiuso, dalla cui toppa, larga due dita, potei guardare nell’interno.
Si vedevano archi, volte nereggianti d’ombra, scale sbrecciate, finestre senza imposte, frammenti di marmo lavorato caduti dall’alto e giacenti tra l’erba che aveva invaso i cortili. Cespugli, rovi, edere e perfino un roseto rampicante, invadevano ogni spazio e pendevano a festoni dai muri cadenti.
Seppi presto che i Castelli, detti di Cannero, erano stati costruiti la prima volta nel XVI secolo da tre o quattro fratelli di Ronco presso Brissago, detti Mazzardit feroci briganti che tenevano in soggezione tutti i paesi del lago e certamente anche il mio.
Distrutti dalle milizie viscontee che ne avevano snidato i banditi, erano stati riedificati più di un secolo dopo come opera di difesa verso gli svizzeri, dai Borromei, diventati padroni del lago.
Dopo aver subito un assedio, mai più attaccati da alcuna truppa, i Castelli erano andati lentamente in rovina, fermandosi, come materia, al punto giusto in cui una costruzione, incoronata dai secoli, può entrare nel catalogo delle immagini romantiche. ”
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